I frutti del susino o prugno, rappresentavano una componente non trascurabile dell’alimentazione contadina fino alla fine degli anni 50 del novecento, quando ancora il benessere più o meno effimero aveva raggiunto anche le piccole comunità calabresi che non sprecavano nessuna risorsa per la sopravvivenza. L’affrancamento dalla fame era arrivato grazie all’emigrazione transoceanica, verso l’America del nord e l’Australia e poi negli anni del boom economico ( a partire dalla fine degli anni 50), verso l’Italia del nord.
Ogni frutto pertanto contribuiva al sostentamento e niente di esso era perduto, in quanto gli scarti erano dati in pasto alle galline o ai maiali, che costituivano la dotazione obbligata di ogni famiglia, contadina e non.
Per quanto riguarda le prugne o susine, esse , con le varietà più precoci cominciavano a maturare a maggio, mentre i frutti dei biotipi più tardivi erano disponibili fino alla fine di ottobre.
I frutti di alcuni biotipi si prestavano all’essiccazione altre meno o per niente.
Il prugno rusìa portava questo nome in quanto i suoi frutti erano rosseggianti o rosati, come ci ricorda il nome ( rosato o rossiccio nella lingua greco- bizantina).
Splendidi da vedere, erano buoni da mangiare e difficilmente erano attaccati da parassiti, per cui si conservavano integri fino alla maturazione; si prestavano egregiamente all’essiccazione.
Il frutto, è oblungo,di quattro cm di lunghezza per tre di diametro;spesso i frutti si presentano a due a due,saldati in corrispondenza dei piccioli.
La buccia si presenta con un bel rosa intenso, mentre la polpa è bianco crema; è spiccagnolo, ossia il nocciolo si stacca facilmente dalla polpa, rimanendo asciutto.
Matura nella seconda quindicina di luglio.
La sopravvivenza di questo biotipo di susino è legato a solo due piante ed il merito del salvataggio è del prof. Domenico Camabreco di Ferruzzano.